L’anidride carbonica e i suoi impatti

I gas serra, così chiamati poiché costituiscono la causa principale dell’effetto serra, trattengono nell’atmosfera i raggi solari riflessi sulla superficie terrestre. L’effetto serra è un fenomeno naturale, ma le emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane e causate dall’uso di combustibili fossili, ossia petrolio, carbone e gas naturale, sono responsabili del riscaldamento climatico.

 

I gas serra (GHG, dall’inglese Greenhouse Gases) possono essere di origine naturale come l’anidride carbonica, il metano e il protossido d’azoto, oppure artificiali come i gas fluorurati.

L’anidride carbonica, ossia il diossido di carbonio, è un gas incolore e inodore composto da un atomo di carbonio e due atomi di ossigeno (CO2). Le emissioni eccessive di questo gas sono una delle principali cause del riscaldamento globale.

 

Il ciclo del carbonio

Il ciclo del carbonio sulla Terra coinvolge i quattro “serbatoi attivi” di anidride carbonica, cioè gli spazi planetari dove è immagazzinato il carbonio: le riserve di carbonio si trovano nell’atmosfera, nella biosfera, nell’idrosfera (oceani e mari) e nella litosfera (lo strato solido superficiale della Terra). Il ciclo è costituito dall’interscambio del carbonio tra queste quattro riserve attraverso processi chimici, fisici, geologici e biologici; il carbonio può rimanere immagazzinato per centinaia di anni negli alberi e per migliaia di anni nel suolo. Alterazioni in queste riserve di carbonio, come per esempio quella derivata dalla deforestazione, influenzano il riscaldamento globale. Ma sono le attività umane che rilasciano il carbonio direttamente nell’atmosfera ad avere il maggior impatto sul ciclo del carbonio, cambiandone addirittura alcune fasi. Sin dagli inizi della rivoluzione industriale, le emissioni dei gas di scarico derivanti dalla combustione dei combustibili fossili hanno trasferito il carbonio dalla geosfera all’atmosfera e hanno influenzato il ciclo del carbonio anche indirettamente, modificando la biosfera terrestre e quella oceanica.

L’alterazione dei terreni ad opera dell’uomo ha inoltre comportato importanti perdite dal punto di vista della biodiversità, diminuendo la capacità degli ecosistemi di resistere agli stress ambientali e riducendo quindi le possibilità di un dato ambiente di rimuovere dall’atmosfera il carbonio in eccesso. La progressiva deforestazione ha aggravato la situazione: la rimozione degli alberi, che hanno la capacità di trattenere grandi quantità di carbonio, causa la permanenza di quantità maggiori di carbonio nell’atmosfera.

 

L’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera

La proporzione di carbonio nell’atmosfera è inferiore a quella negli altri tre serbatoi, eppure ha l’influenza maggiore sul clima terrestre. Nell’atmosfera è presente con un rapporto medio di 380 parti per milione. «Negli ultimi 800 mila anni, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera ha oscillato tra 170 e 330 parti per milione (livelli molto accettabili per la sostenibilità del pianeta), ma negli ultimi 170 anni, e in maniera enormemente accelerata negli ultimi tre decenni, è schizzata alle stelle a valori che attualmente raggiungono le 415 parti per milione» spiega Rafael Sardá, ricercatore presso il Centro superiore spagnolo per la ricerca scientifica (CSIC).

La CO2 può rimanere nell’atmosfera per decenni. Il metano in confronto scalda di più, ma la sua vita media nell’atmosfera è più breve, raggiungendo appena i dodici anni. L’Unione europea utilizza come parametro il potenziale di riscaldamento dei gas a effetto serra tra cento anni. L’impronta di carbonio è stimata in gigatonnellate di anidride carbonica equivalente.

Le statistiche ufficiali confermano che le emissioni di CO2 non sono affatto diminuite negli ultimi anni, se si escludono i mesi di confinamento e il drastico calo delle attività in molti paesi a causa della pandemia. Nel 2017 l’Unione Europea ha emesso 3,9 Gton di “CO2e”, ossia 3,9 gigatoni di anidride carbonica equivalente. «Questo rappresenta il 7% dei GHG. Per questo, se l’Ue dei 27 raggiungesse la neutralità climatica, avrebbe un grande impatto sulla sfida climatica» afferma Joseba Eceiza, partner della società di consulenza McKinsey & Company.

Le emissioni di CO2 nell’atmosfera sono distribuite prevalentemente tra cinque settori: 28% nei trasporti, 26% nell’industria, 23% nella produzione di energia elettrica, 13% nell’edilizia e 12% nell’agricoltura. I combustibili fossili sono la principale fonte (80%) di GHG.

 

I rischi delle emissioni

Le conseguenze dell’eccesso di emissioni di CO2 nell’atmosfera potrebbero essere catastrofiche, a meno che in questo decennio non si registri una drastica riduzione. I rapporti scientifici prevedono infatti molteplici rischi e impatti ambientali correlati al problema dell’anidride carbonica: aumento di siccità, uragani o tifoni, migrazioni massicce dovute a cause climatiche, problemi di approvvigionamento dovuti al collasso dei raccolti, diminuzione dell’acqua potabile, innalzamento del livello del mare, estinzione di specie animali e vegetali e scomparsa di interi ecosistemi, soprattutto quelli più fragili come le barriere coralline. La fragilità degli ecosistemi sta aumentando a vista d’occhio e molti problemi futuri non sono nemmeno prevedibili oggi, come ha accennato il premio Nobel Giorgio Parisi discutendo sull’eventualità di un innalzamento delle temperature oltre i due gradi: lo scenario è quello di una “terra incognita”, dove non è nemmeno possibile fare previsioni.

 

Le conseguenze economiche

L’accumulo di CO2 ha anche gravi conseguenze economiche. Lo aveva scritto già quindici anni fa l’economista Nicholas Stern nel suo Rapporto sui cambiamenti climatici – uno dei più riconosciuti tra gli studi che misurano questi effetti – dove aveva ipotizzato diversi scenari. Un riscaldamento di 2-3 gradi Celsius causerebbe fino al 3% di perdita permanente del Pil a livello globale; i paesi in via di sviluppo pagherebbero costi ancora più elevati. Con un riscaldamento di 5-6 gradi Celsius invece, la perdita potrebbe raggiungere il 10% del Pil globale; i paesi poveri subirebbero ancora una volta i costi più alti, oltre il 10% del Pil. Il rapporto Stern indicava quindi chiaramente che i costi dell’inazione sul clima sarebbero stati di gran lunga superiori ai costi dell’azione. All’epoca della sua pubblicazione, il rapporto Stern era stato criticato in quanto considerato come un’esagerazione dei rischi della crisi climatica, e Stern era stato additato come un allarmista. In realtà, oggi sappiamo che i danni correlati alla crisi climatica sono stati sottovalutati ampiamente e per lungo tempo. Dalla pubblicazione del rapporto, le emissioni di carbonio sono aumentate del 20%, mentre l’azione politica è stata lenta e vacillante, a causa della persistenza dell’idea dannosa che l’azione in favore del clima potesse ridurre la crescita economica. Come ha recentemente affermato Stern, «i costi dell'inazione erano molto preoccupanti 15 anni fa, ora sono immensamente preoccupanti».

 

La cattura e lo stoccaggio

Il problema dell’eccesso di CO2, causato dalle attività umane, è aggravato dalla sua lunga persistenza nell’atmosfera. La concentrazione di CO2 è più alta che mai; dalla rivoluzione industriale la temperatura media è aumentata di circa un grado Celsius e la forzatura climatica – la differenza tra la luce solare assorbita dalla Terra e l’energia irradiata nello spazio – è aumentata di 2,3 watt per metro quadro. Di fronte a questa minaccia senza precedenti, gli studiosi stanno prendendo in considerazione lo stoccaggio sotterraneo della CO2.

Il CSIC spagnolo e l’Università tecnica di Freiberg, in Germania, stanno studiando un metodo innovativo per immagazzinare il gas nel sottosuolo in tutta sicurezza. Non è tecnicamente facile, ma è fattibile. Come ha precisato Víctor Vilarrasa, ricercatore del CSIC e autore dello studio, «circa il 20% delle emissioni di CO2 proviene da processi industriali, come la produzione di cemento, acciaio o etanolo, che continueranno a emettere questo gas anche se tutta l’energia che consumano proviene da fonti rinnovabili». L’idea è catturare questa anidride carbonica e immagazzinarla nel sottosuolo.

Il problema si pone nel momento in cui vengono utilizzate rocce porose e permeabili, situate tra uno e tre chilometri di profondità, poiché esiste il rischio di perdite.

La CO2 è meno densa dell’acqua e quindi galleggia. Per ovviare a questo inconveniente, bisogna iniettare il gas dove la temperatura e la pressione sono rispettivamente superiori a 374 gradi Celsius e 218 atmosfere. Queste condizioni si trovano in aree vulcaniche tra i tre e i cinque chilometri di profondità; l’Italia, le isole Canarie e la Turchia sono dunque luoghi favorevoli a immagazzinare la CO2. Si tratta di tecnologie ancora in fase di sperimentazione, ma si stima che ogni pozzo potrebbe ospitare emissioni equivalenti all’attività di 1,1 milioni di persone.

 

Area vulcanica del monte Etna, Sicilia

 

Decarbonizzazione graduale per settori

L’Unione Europea si è prefissata di arrivare a zero emissioni nette nel 2050.

Ogni settore si adeguerà secondo tempistiche differenti.

McKinsey & Company stima che nella prima metà degli anni 2040 la produzione di energia rinnovabile sarà già competitiva e disponibile su larga scala e che intorno al 2045 i trasporti potrebbero essere intensamente elettrificati, ad esclusione dell’aviazione e del trasporto marittimo a lunga distanza, per la cui decarbonizzazione sarà necessario attendere ancora; per ridurre le emissioni in questi settori, bisognerà probabilmente ricorrere ai biocarburanti.

Poi sarebbe la volta degli edifici e, nel 2050, questo processo raggiungerà più pienamente l’industria, uno dei settori più difficili da decarbonizzare, soprattutto nella sua variante pesante. Le tecnologie necessarie per realizzare questa conversione non sono ancora del tutto sviluppate, ad esempio per elettrificare il settore dell’acciaio o del cemento.

La trasformazione, oltre all’elettricità pulita, riguarderà anche l’agricoltura, che utilizzerà tecniche molto più efficienti e sostenibili, fertilizzanti migliori, combustibili alternativi, compost. Ciò implica che gli esseri umani dovranno nutrirsi in modo diverso, dato che più della metà delle emissioni di anidride carbonica del settore alimentare provengono dall’allevamento di bestiame.

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