La necessità di un’economia circolare

Diversi studiosi sostengono che sia ormai avvenuto il passaggio dall’Olocene, iniziato dopo la fine dell’ultima glaciazione, all’Antropocene, termine coniato negli anni ‘80 dal biologo Eugene Stoermer per riferirsi all’impatto delle attività umane sul pianeta, e divulgato nel 2000 dal premio Nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen, per identificare l’attuale era geologica contraddistinta dall’influenza diretta dell’uomo sul clima. L’antropologo della natura Philippe Descola sottolinea che “la causa principale dell’ingresso nell’Antropocene è lo sviluppo”, identificabile come “capitalismo industriale, rivoluzione termodinamica, tecnocene, modernità”, uno specifico tipo di antropizzazione associata all’uso esponenziale delle risorse minerarie e dei combustibili fossili. Per lungo tempo la natura è stata concepita dal capitalismo e dall’economia occidentale come una risorsa illimitata, subordinata alle necessità e al controllo dell’essere umano che ne dispone a piacimento e dal cui sfruttamento può trarre una crescita infinita grazie al costante miglioramento delle tecniche.

 

Iniziato già con la rivoluzione industriale nel XVIII secolo, l’Antropocene si caratterizza per sostanziali mutamenti nel pianeta, identificando l’essere umano come una vera e propria forza di trasformazione dell’ambiente e delle sue dinamiche ecosistemiche, con segni documentabili a livello stratigrafico e geobiofisico. L’agricoltura estensiva, la deforestazione intensiva, la riduzione della biodiversità, il sovrasfruttamento e l’inquinamento degli ecosistemi acquatici, la nitrificazione e la deossigenazione degli oceani, l’immissione di ingenti quantità di gas serra nell’atmosfera – tutta opera dell’umanità industrializzata – hanno causato il deterioramento della biosfera e modificato i cicli biogeochimici globali: ad esempio, l’uso spropositato di combustibili fossili influisce sul ciclo del carbonio, lo sfruttamento delle risorse idriche per l’agricoltura e l’industria influisce sul ciclo dell’acqua, la deforestazione e i fertilizzanti interferiscono coi cicli del fosforo e dell’azoto.

La cosiddetta “grande accelerazione”, iniziata negli anni ‘50 e sviluppatasi rapidamente in modo esponenziale, ha aggravato questa tendenza allarmante.

 

Cambio di paradigma

Per arrestare il processo che sta rendendo la Terra sempre meno abitabile, è urgente dunque trovare soluzioni in grado di disinnescare le attuali logiche autodistruttive che caratterizzano l’Antropocene.

Una presa di coscienza della situazione e le singole azioni riparatrici per minimizzare le emissioni non sono sufficienti per rimediare a oltre due secoli di impatto negativo sul pianeta causato da un modo di vivere insostenibile, che inoltre continua a diffondersi inarrestabilmente al di fuori del mondo oc-cidentale dove è sorto; è indispensabile un cambio radicale del modello di consumo, della concezione della natura e delle fonti energetiche, insomma della nostra complessiva visione del mondo.

Il paradigma economico lineare “produzione-utilizzo-rifiuto”, diffusosi dal secondo dopoguerra e ba-sato sui combustibili fossili, deve virare verso un paradigma circolare in cui alla produzione e all’uso non segue lo scarto, ma il riutilizzo, la rigenerazione e la riparazione, la condivisione e la rivalutazione del prodotto.

 

Le emissioni del settore produttivo

L’economia circolare gioca un ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico e nel perse-guimento dell’obiettivo “zero emissioni” entro il 2050. Se finora gli sforzi per affrontare la transizione si sono focalizzati prevalentemente sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica, bisogna tut-tavia ricordare che queste misure riguardano soltanto il 55% delle emissioni globali: il restante 45% deriva dalla fabbricazione di prodotti, ed è quindi strettamente legato al nostro stile di vita consumi-stico. Raggiungere la neutralità del settore energetico non sarebbe dunque sufficiente a realizzare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, se non si trasformano anche i modelli di produzione e il modo in cui usiamo i prodotti.

Il tema della transizione assume così una rilevanza sociale oltre che economica, dal momento che dovremo cambiare il nostro modo di vivere per ridurre l’impatto di anidride carbonica. Per fare un esempio concreto, stando al report “Completing the Picture: How the Circular Economy Tackles Cli-mate Change”, pubblicato nel 2019 dalla Ellen MacArthur Foundation in collaborazione con Material Economics, l’applicazione di strategie di economia circolare alle industrie manifatturiere di alimenti, plastica, cemento, alluminio e acciaio dimezzerebbe le emissioni relazionate alla produzione, cioè 9,3 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2050, l’equivalente delle attuali emissioni del settore trasporti. Affi-dandosi invece soltanto a strategie di aumento dell’efficienza energetica e a fonti energetiche senza carbonio, le emissioni connesse alla produzione dei quattro materiali industriali fondamentali – acciaio, alluminio, cemento e plastica – raggiungerebbero 649 miliardi di tonnellate di CO2 fino al 2100, supe-rando il limite di carbonio fissato dall’Accordo di Parigi per contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5°C.

La strada da percorrere è quella di un’innovazione tecnologica in ottica circolare: riutilizzando i rottami di acciaio si ridurrebbero le emissioni del 38%, col riciclo dell’alluminio la riduzione sarebbe dell’80% e, per quanto riguarda la plastica, la sua trasformazione da monouso a multiuso comporterebbe una diminuzione del 90% delle emissioni di anidride carbonica.

 

Principi e cicli circolari

L’economia circolare si basa su tre principi: eliminare gli scarti e l’inquinamento dalla progettazione, prolungare l’uso di prodotti e materiali e rigenerare i sistemi naturali.

Il ciclo circolare può essere biologico, nel caso in cui materiali naturali vengano reintrodotti nel sistema attraverso processi di compostaggio o digestione anaerobica, andando così a soddisfare il terzo principio legato alla rigenerazione dei sistemi naturali (come il suolo) e fornendo al contempo risorse rinnovabili per l’economia. L’altro ciclo circolare è quello tecnico, che recupera e restaura prodotti, componenti e materiali tramite il riutilizzo, la riparazione, la rigenerazione o il riciclo.

Affinché l’industria europea colga l’opportunità del Green Deal per riacquistare una leadership a livello mondiale, lo sviluppo di innovative soluzioni tecnologiche in ottica circolare è cruciale: l’Europa ha bisogno di aggirare la sua scarsità di materie prime che la rende dipendente dagli altri continenti per l’approvvigionamento, condizione che sta causando rallentamenti nella crescita della produzione e mettendo a rischio la capacità di ripresa dell’industria manifatturiera italiana ed europea.

Come rimarca Luca Dal Fabbro, presidente dell’Istituto Europeo Esg e autore di uno dei primi libri in italiano sull’economia circolare (“L’economia del girotondo”), attualmente gettiamo la maggior parte dei telefoni cellulari usati, che contengono terre rare la cui estrazione è controllata da cinque paesi e in particolare dalla Cina, che ne detiene la leadership totale; ecco perché per l’Europa è estrema-mente strategico rigenerare e riutilizzare prodotti come i cellulari, che al loro interno hanno materie già oggi considerate abbastanza preziose, e che in futuro lo diventeranno ancor di più.

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